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La gioia

EH… QUESTO È L’ULTIMO REGALONE CHE ALESSANDRO GIANESINI MI FECE UN DÌ. SONO SEMPRE TRISTE UN PO’.

MA -zzzzzzzffffrrrrrr- SENTO UN’INTERFERENZA PROVENIRE DALL’OLTREWORDPRESS.

(“SOLO ET PENSOSO…”)

EH?

(“SOLO ET PENSOSO!”)

EH…

“SOLO ET PENSOSO, ECCHECCATZ!”

GIANE?

Finito! Spengo il PC e raccolgo la giacca dallo schienale della sedia; un rapido sguardo e vedo che le luci sono tutte spente: bene. Chiudo la porta dell’ufficio e imbocco le scale scendendo gli scalini a due a due.

Il sole è ancora alto e la primavera si sta rivelando più calda del solito, ma sono fuori da quelle quattro mura e non ci sarà più nessun cliente a lamentarsi di questo o di quell’altro fino a domani. Mai nessuno che si fermi a far due parole per dire che è stato soddisfatto: pazienza, ormai non ci spero nemmeno più.

Respiro a pieni polmoni e sorrido «Buonasera, Emma!» la vicina sta innaffiando le sue erbette sul balcone del primo piano, senza curarsi dell’acqua che cade anche sui passanti, ma io ho imparato il trucco ed evito di farmi la doccia da vestito come le prime volte. È un po’ rincoglionita, è vero, ma non è cattiva. Quando si accorge di me agita la mano e risponde al mio sorriso, con un la faccia felice.

Butto la giacca sul sedile posteriore e accendo la macchina: parte l’autoradio e dalla chiavetta inizia la traccia “The Passenger” di Iggy Pop, uno dei miei brani preferiti: con i pollici picchietto sul volante mentre mi immetto nella rotatoria e canticchio “Lalalalallalalla” come un deficiente, ma sono di buon umore e me ne fotto degli altri.

Il semaforo è rosso. Nella macchina accanto che una bella ragazza, bionda, capelli corti. Si gira a guardarmi e io continuo a canticchiare in playback, fissandola mentre mi esibisco: scoppia a ridere alla mia performance ed è un peccato che diventi già verde, però mi saluta agitando le dita con un sorriso radioso.

Mi sono lasciato la città alle spalle sto arrivando a casa e il mio pensiero vola a lei: tra poco la rivedrò e so già che non aspetta altro. Sospiro, mentre svolto uscendo dalla statale per entrare nel paese. Un paio di curve, un cenno di saluto a un amico che sta facendo jogging e arrivo al cancello di casa.

Eccola là, che sbircia da dietro la tenda: non riesco a trattenere un sorriso mentre entro, mi levo le scarpe e sento i suoi passi in cucina, avanti e indietro, avanti e indietro.

Aspetto ancora un po’ cercando di sbirciare attraverso il vetro satinato.

Abbasso la maniglia e lei che mi fissa con i suoi occhioni marroni «Quante volte te lo devo dire che non devi saltare sul divano?» la sgrido agitando l’indice davanti al suo tartufino.

Ha le orecchie basse, ma scodinzola furiosa e saltella come un grillo. Mi metto in ginocchio davanti a lei e mi si avvicina fissandomi con occhi adoranti: la massacro di coccole e lei si mette distesa a zampe all’aria.

«Andiamo a fare un giretto?» campionessa mondiale di rotolamento, si rimette in piedi e inizia a girarmi attorno latrando a intermittenza «Va bene! Ho capito, ho capito, ho capito: adesso andiamo…» un’altra carezza, il guinzaglio e siamo di nuovo per strada, io e lei.

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Il disgusto

(immagine presa da qui)
Nuova e poco trattata emozione regalatami da ALESSANDRO GIANESINI! Ebbene sì, prima o poi la si doveva annoverare… (cit.) ma niente panico! È meno consueta di quanto si pensi.
Buona lettura!
(GRAZIE ALE!)

Cos’è ‘sta roba? E io ci dovrei mettere le mani? Mi viene il vomito solo a pensarci, figuriamoci ad avvicinarmi. Si sente la puzza fin da qui. No, no: quello sta lì dov’è e si arrangia, io le mani non me le sporco di certo con quella merda.

E poi, perché lo devo fare io? Non è il mio lavoro. Che si arrangi chi ha fatto quel macello.

«Bleah…» una zaffata acre, un miasma immondo mi arriva alle narici e quasi traballo prima di riuscire a portare la mano al naso.

Dei passi dietro di me, devo decidere cosa fare, o qui si mette male. Ma come si fa? Non ho nemmeno un paio di guanti e poi, quella cosa, continua a muoversi e io… Come ci sono finito in questo pasticcio?

No, non era così che immaginavo di iniziare la giornata. Posso far finta di niente, certo, ma poi?

Mi giro di lato, prendo un gran respiro e faccio un passo avanti: quasi senza guardare allungo le mani, afferro la cosa e l’odore mi riempie le narici. Per poco non mi cade.

Si mette pure a fare un rumore infernale: ma non si scaricano mai le batterie di ‘sto coso?

Solo una fessura, le palpebre quasi del tutto chiuse e il naso che mi si è arricciato in una maniera innaturale. L’ossigeno sta finendo nei polmoni e io son qui ancora lontano dall’aver finito con questa cosa.

Merda, merda, merda! Appoggio alla superficie e tenendolo fermo con una mano, mi volto e prendo fiato, anche se è tutta pervasa da quel lezzo nauseabondo. Non ce la faccio più, non ce la faccio…

«Levati, imbranato: ci penso io a cambiare nostro figlio.»

Non me lo faccio ripetere e mi allontano di qualche passo: l’aria è più buona nell’altra stanza. Non mi sento in colpa, mi sento sollevato. E sorrido: quanto preferisco quel fagottino quando è pulito e profumato!

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La vergogna

Afrodite (da qui)
Ecco una nuova emozione regalatami da ALESSANDRO GIANESINI (Ale dove seiiiii?). Non aggiungo altro, questo racconto è da bere ghiacciato, per sentire il brivido di pudore.
Buona lettura!
(GRAZIE ALE!)

Perché tutti mi fissano? Ho qualcosa che non va col vestito? È sporco?

Osservo le maniche e la gonna del tailleur gessato: sembra tutto in ordine, nemmeno una grinza. Allora perché mi sento tutti i loro occhi addosso? Ci dev’essere qualcosa che non va, ne sono sicura, ma cosa?

Ecco: ce n’è uno che ride sotto i baffi, lo vedo e quando i nostri occhi si incrociano lui smette e finge di sistemare un foglio.

Sarò diventata di tutti i colori, ci scommetto. Che abbia sbagliato a truccarmi? Eppure… No, no. È tutto a posto, mi sono data un’ultima controllatina prima di scendere dall’auto.

Continuano a fissarmi, mentre mi siedo. I loro occhi mi spogliano e io non riesco a sollevare la testa. Le gambe tremano. Continuo a muoverle, a farle oscillare con le mani che tengono giù l’orlo, tirandolo fin quasi alle ginocchia. Se continuo così me la strappo questa gonna e allora sì che ci sarà da divertirsi.

Ma già lo fanno. Un risolino, un altro. Eccone un altro che sogghigna, vicino alla finestra.

Deglutisco e li fisso, seduti davanti a me, ma loro sono impassibili e mi scrutano con ostinata voracità. Ma che vi ho fatto per meritarmi tutto ciò? Nemmeno fossi un carnefice che viene messo alla gogna davanti al popolo che ha terrorizzato fino al giorno prima. Sento che le lacrime sono a un passo dallo scorrere giù dagli occhi e sì, a quel punto il trucco andrebbe a farsi benedire e sarei ridicola.

Le mani tremano e lascio il segno del sudore dei palmi sulle cosce.

Perché tutte le volte è così? Non mi piacciono quegli sguardi che frugano nella mia intimità, come se fossi alla loro mercé, senza niente addosso, con anima e corpo esposti al pubblico ludibrio: sono una persona, abbiate rispetto di me e del mio pudore!

Prendo un profondo respiro e sollevo appena gli occhi. Il brusio cresce e io mi schiarisco la voce.

Il silenzio è pure peggio, ora ho la loro attenzione, ma i loro sguardi sono taglienti e sento addosso le ferite che mi infliggono.

Faccio scorrere lo sguardo su di loro, ma levo pian piano le mani dalla gonna e le allungo, prendendo tra le dita quella copertina azzurra, consunta e sdrucita agli angoli: ne sfoglio alcune pagine e poi torno all’inizio.

Una risata, qualche altra parola bisbigliata e un “iniziamo?” mi sferzano le orecchie.

Sento le guance in fiamme.

«Ra… ragazzi, ora si… silenzio. Fa… fa… facciamo l’a… l’a… l’a… l’appello.»

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La paura

Mr. FEAR – SIAMÉS
(Directed and Animated by RUDO Co. http://www.rudocompany.com)

PRIMA DI LASCIARE QUESTE LANDE DESOLATE, L’EX-SOCIO ALESSANDRO GIANESINI MI HA FATTO DONO DI ALCUNI RACCONTI RIGUARDANTI CIASCUNO UN’EMOZIONE. LI CONSIDERO DEI REGALONI. ECCONE UN ALTRO PARTICOLARMENTE CENTRATO… (i puntini di sospensione sono una citazione che gli devo)

PER L’OCCASIONE NON USERÒ UNA SEMPLICE IMMAGINE, MA UNA CANZONE CON UN’ANIMAZIONE STUPENDA.

(GRAZIE ALE!)

Buona lettura!


«No, non spegnete la luce, vi prego…» gratto con le unghie contro la porta chiusa, ma anche lo spiraglio che c’era sotto scompare: stop, finito, buio totale.

Mi metto con la schiena contro il legno, che improvvisamente è freddo, ostile. Il formicolio sale dalle dita e scorrere attraverso le mani fino ai gomiti: mi gratto, ma non si ferma, e un sibilo spezza il silenzioso nero che mi avvolge e mi striscia addosso con le sue viscide squame.

Ho gli occhi sbarrati, ma nessuna luce mi permette di trafiggere quella nebbia bituminosa che fluttua davanti a me, attorno a me, occultandomi il mondo… occultandomi al mondo…

Mi si mozza il respiro riempiendomi i polmoni di un gelido fluido ribollente.

Era una risata quella? «Ehi, c’è qualcuno?» giro di scatto la testa, ma è tutto nero, tutto lontano dai miei sensi amputati.

Tutto tace, ma il vuoto è rotto dalla risata che mi gira intorno, da un orecchi all’altro, carezzandomi con l’alito graffiante del suo rauco ripetersi.

Agito le mani, ma i fendenti delle mie dita graffiano solo l’aria, che si fa intensamente pungente e mi trafigge la pelle. Torno a grattarmi, i palmi, i dorsi delle amni e sento che tutto si lacera e anche quel tepore di sangue che ne esce, si congela, evaporando via dal mio corpo.

No, no: non urlerò come ieri, non lo farò di nuovo: quell’ago mi ha fatto vivere un sogno che… ma io ci sono già dentro, non è così?

Ancora quella voce, così carezzevolmente spietata che mi lacera i timpani col suo sussurro di piacevole morte: mi metto in posizione fetale cacciando la testa tra le ginocchia, ma la voce sembra ancor più distinta e mi attira ancor di più lontano dalla luce, dove il pensiero non riesce a penetrare il velo di oscurità che l’ha intrappolato. Ansimo a bocca aperta e l’aria non ne vuol sapere di riempire il mio corpo.

Non ce la faccio più, ora urlo… ora urlo… ora urlo!

Sento il sangue colarmi dall’angolo della bocca e scorrermi in gola, refluo di tepore già destinato a estinguersi.

Ogni respiro s’affanna a inseguir quello prima, ma la risata cresce di volume e ora sento il suo odore davanti a me e i suoi occhi mi fissano bui e profondi come la notte che mi tormenta col suo scherno.

Serro le palpebre, ma queste mi si ribellano e gli occhi scrutano quel che non si vede, quel che mi aggira e mi perseguita: sento il suo tocco sul corpo, tra i capelli e i suoi passi silenziosi mi aggirano in una danza macabramente rituale e dal sapore di fine.

Il sale delle lacrime si mischia al sentore ferroso del sangue sulle mie labbra e la lingua ferita ne raccoglie gli umori per ricacciarli nel corpo a cui appartengono.

Il cuore smette di martellare, la voce stavolta è vera e la porta si apre sul corridoio abbagliante.

«Ti sei pisciato addosso anche stanotte, stronzo?» il secondino mi assesta due calci nei reni, ma il mio corpo ancora tremante non si muove dalla posizione. La luce mi lacera le pupille, ma ora respiro, vivo.

Il sangue, le lacrime, il piscio… di quello poco m’importa.

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La noia

Stranger Than Paradise – Jim Jarmusch – 1984 (foto da qui)

ED ECCO UNA NUOVA EMOZIONE REGALATAMI DA ALESSANDRO GIANESINI. (Il Socio non ne sta sbagliando una.)

È LÌ, SOTTOPELLE, PRONTA A CERCARE OSSIGENO IN QUALSIASI MOMENTO.

BUONA LETTURA

(ALE, GRAZIE!)


«[…] al triplice fischio dell’arbitro, il punteggio resta sullo zero a ze…»

«Bella partita di merda!» Sbuffo.

Mi giro a guardare mia moglie che dorme sotto al plaid e afferro il telecomando mettendomi a fare zapping. Ci provo per cinque minuti, ma senza trovare niente di interessante e spengo la TV.

Faccio passare un braccio attorno alle spalle di Elena, la tiro verso di me e le bacio il collo «Ehi, tesoro» lei muove la testa senza aprire gli occhi «a me è venuta una certa idea, che ne dici se…»

«Sono stanca, amore, lasciamo dormire.» mugugna qualcosa e aggiunge «Domani, promesso…»

Sospiro e mi alzo, guardando fuori dalla finestra: le luci dei lampioni illuminano la via, ma non si vede una macchina in questa serata d’inverno: cos’è? Han tutti paura di una spruzzata di neve? Ce ne sarà forse un millimetro…

Prendo il telefono e guardo nel gruppo degli amici di whatsapp: qualcuno ha detto che non esce, gli altri nemmeno quello han scritto.

Non ho voglia di stare a casa da solo. A dormire da solo: è sabato sera, cazzo!

Ok, deciso: esco. Mi bevo una birra e se non trovo nessuno, torno. Tanto quella, scuoto la testa guardando mia moglie nemmeno se n’accorge che non ci sono e la ritrovo dove l’ho lasciata.

Mi cambio, infilo un paio di jeans puliti e una camicia a caso, maglione, giaccone e via.

Esco dal garage e la neve riprende a cadere, stavolta più fitta. Ok, non ho le gomme da neve, ma per fare un paio di chilometri che sarà mai? Le catene nel baule ci sono, perciò…

La birreria è chiusa, figurarsi: uno vuole uscire una sera, divertirsi dopo una settimana di merda e non c’è nemmeno un posto dove andare a bere?

Sono tentato dal bar Sociale, ma con la clientela che ha è già buono se resta aperto fino alle nove di sera.

Cambio programma, andiamo fuori paese, sia mai che…

Cinque chilometri con la neve che continua a scendere e aggrapparsi all’asfalto e il risultato? Chiuso, nessuno in giro, tutte le luci spente e io a rompermi i coglioni perché non posso bermi una stramaledetta birra! Tornerò a casa, tanto, ormai, peggio di così…

Mi giro nel parcheggio vuoto e torno sulla strada: la visibilità è calata, ma tanto ci sono solo io in giro. Premo sull’acceleratore e la macchina mi va via di culo: l’adrenalina sale e io controllo a fatica il volante, ma mi sfugge un «Wow» dalle labbra.

Proseguo ancora un chilometro, con i tergicristalli al massimo della velocità: la strada è larga e io schiaccio un po’ sull’acceleratore: la macchina slitta e sento di nuovo la vita scorrere nelle mie vene.

Due luci mi arrivano dritte negli occhi: non ho nemmeno il tempo di veder scorrere tutta i miei ricordi, però sono consapevole che ora la vita scorrerà anche fuori dalle vene… per sempre.

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La gelosia

immagine da qui

CONTINUA LA CAVALCATA DELLE EMOZIONI REGALATEMI DA ALESSANDRO GIANESINI, IL MIO SOCIO IN WORLD OF SPHAERA.

IL SUO VIAGGIO NON SMETTE DI STUPIRMI… (i puntini di sospensione sono un omaggio all’autore)

BUONA LETTURA

(ALESSANDRO, GRAZIE!)


Un breve trillo e una vibrazione si sovrappongono al brusio di sottofondo della pizzeria. Guardo di sottecchi Flavia, che deglutisce e avvampa «Scusami, ora lo spengo.»

Faccio segno di no mentre mando giù il boccone «Ma no, figurati.» sorseggio un goccio di birra e la fisso «Chi era?» socchiudo le palpebre posando il boccale.

«Giusy, chiedeva se stasera usciamo.» si stringe nelle spalle infila in fretta il telefono nella borsetta attaccata allo schienale «Mi stavi dicendo del progetto che state facendo.»

«Oh, beh, niente di ché.» abbozzo un sorriso, ma non smetto di fissare la borsetta nera e mi par di sentire un’altra notifica «Non avevi detto che avevi spento?» serro la mascella, ma mi costringo a prendere un lungo respiro e increspare le labbra «Comunque per ora» seguo il suo sguardo che si sposta sulla borsa alla sua sinistra «sta procedendo tutto per il meglio e, se andrà avanti così, forse i capi ci daranno pure un bonus.» la mia voce è piatta e non riesco a non guardare verso quell’affare che penzola.

Il cameriere passa e ci porta via il piatto «Prendete qualcos’altro, signori?» mi guarda appena e poi sorride a Flavia, tenendo gli occhi su di lei e la sua scollatura. Sembra che lo faccia apposta. Lui posso anche capirlo, ma lei? Perché ricambia il sorriso?

«Marco?» mi sta guardando con aria perplessa «Facciamo un fritto misto in due?»

Annuisco «Sì, sì: va bene.» ma la mia faccia dev’essere tutt’altro che entusiasta, tant’è che il cameriere sbircia corrucciato verso di me mentre segna sul taccuino e se ne va.

«C’è qualcosa che va?» Flavia mi sta parlando, ma io sto ancora guardando la borsetta e sento che continua a vibrare.

«Lo puoi spegnere?» sputo le parole con rabbia e vedo che lei sgrana gli occhi e annuisce «No, è che volevo che fosse una serata solo per noi e invece…» non è un messaggio, ma una vera e propria chiamata: mi fa segno alzando l’indice e si alza allontanandosi.

Io la guardo e dà tutta l’impressione di essere felice per la telefonata, anche se finge preoccupazione. Esce dalla porta a vetri e la vedo parlare e gesticolare, ma è di spalle e non capisco. Nel frattempo, il cameriere mi lascia il vassoietto con scampi, gamberi e calamari, insieme a due piatti puliti; si gira anche lui verso Flavia e, dopo un momento di esitazione, si allontana. Ma cosa vogliono tutti da lei?

«Scusami, ma era mia madre.» e cosa voleva? Corrugo la fronte e la fisso, senza toccare il fritto «Finito di cenare è meglio che rientri: non si sente molto bene e…» abbassa lo sguardo «Mi spiace rovinare la nostra serata, ma sai com’è fatta: basta un niente e va in paranoia.» serro la mascella «Sei arrabbiato?» mi sbircia prendendo con le dita un calamaro per poi portarselo alla bocca.

Certo che sono arrabbiato «No, figurati, è solo che…» che mi sta sul cazzo che mi si prenda per il culo, ecco «Se vuoi ti riaccompagno subito, non c’è problema.» e così puoi andare dal tuo amichetto che non resiste, ah? Perché sei così puttana? «Io non so se riesco a continuare così, sai?»

Lei smette di masticare e sbatte ripetutamente le palpebre «Marco, io…»

«Non dire niente, non voglio parlarne ora.» mi alzo e vado alla cassa e il cameriere si avvicina al tavolo e inizia a parlare con Flavia e lei gli risponde con un sorrisetto, prendendosi un altro calamaro fritto.

Pago e torno al tavolo «Su, andiamo…» il cameriere torna con una doggy-bag in alluminio e lo consegna a lei: certo, io pago e lei si porta a casa pure il fritto, ‘sta zoccola «Andiamo?» ripeto mentre lei sta ancora ringraziando il bellimbusto che la squadra da capo a piedi come se fosse all’asta del bestiame.

Lei mi raggiunge e mi prende sottobraccio «Mi dici cos’hai?» ma io mi ritraggo «Guarda che puoi fermarti anche tu a casa nostra, se ti va.»

Io la guardo e scuoto la testa «Sì, certo. E poi…» mi blocco quando un cliente le apre la porta e le sorride con un mezzo inchino al quale lei risponde con un grazie tra due guance che si arrossano «No, lascia stare: ormai è andata così.» nel chiudere la porta vedo che quell’altro guarda il culo di Flavia.

Saliamo in macchina e ci fermiamo al semaforo «Cosa t’è preso stasera?» sembra quasi sincera la sua voce accorata, ma io guardo fisso davanti a me: perché si è messa così in ghingheri? Non l’aveva mai fatto e poi, tutto d’un colpo… «Ho fatto qualcosa di sbagliato?» mi domanda carezzandomi la spalla.

Sì, sei una bugiarda, ecco cosa «No, niente.» le parole mi escono come un mormorio sommesso «Però non so se voglio ancora star con te.» almeno non farò la figura del cornuto. Perché l’hai fatto? Perché mi hai tradito?

Lei singhiozza, con la testa ciondoloni «Perché?» ripete tra un singulto e l’altro.

Perché fai la smorfiosa, ecco perché! «Penso che tu lo sappia già.»

Arrivati a casa sua lei sta per dire altro, ma io la anticipo con un “Buonanotte” e appena scende, me ne vado. Tutte uguali. Appena le fai sentire importanti, iniziano già a cercarsene un altro.

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L’invidia

Invidia – Giotto – (Cappella degli Scrovegni)

Continua la cavalcata emozionale che ALESSANDRO GIANESINI ha deciso di condividere qui, in anteprima; è un Regalone che non smette di stupirmi e che spero possa avere lo stesso effetto in chi passa su queste pagine.

Il percorso è iniziato con il racconto LA RABBIA, è continuato con LA TRISTEZZA e… buona lettura!

(GRAZIE ALE)


«Ma tu guarda quella: anche la piscina si è fatta!» i lavori sono segnati sul tabellone esposto sulla rete metallica di casa Neri, a cui hanno legato quella arancione per non far guardare dentro: cerco di sbirciare attraverso i piccoli fori, mentre mio figlio mi tira per la mano «Arrivo, arrivo…» c’è un operaio che sta parlando con lei, la reginetta del quartiere: ma è il modo di ricevere gente? In vestaglia di raso e per di più trasparente?

Mi faccio trascinare da Nicola, ma lancio un’occhiata al loro giardino attraverso ogni forellino: ci starà un campo da calcio con tutto lo spazio che hanno, ma loro dove le mettono le piante? Sul confine di casa nostra, così ogni autunno metà delle foglie me le devo raccogliere io: bravi, così ci si comporta!

Sbuffo, ignorando le lamentele del mio bambino «No, niente gelato per merenda, inutile che insisti.» Sembri già un panzerotto, a forza di stare seduto a giocare ai videogiochi.

«Perché ho sposato quel fallito?» le parole mi scappano di bocca, mentre rientriamo nella nostra casupola, una di quelle dozzinali, a schiera: dai Neri hanno recintato tutto con quella maledetta rete da cantiere, così, quando hanno finito, aumenta l’effetto sorpresa, vero? Perché è come se fosse sempre uno spettacolo, manco fossimo al circo! Da noi è già tanto se ci possiamo permettere quella di gomma gonfiabile, di piscine, che quando Nicola ci entra fa uscire metà dell’acqua.

Ecco, ci mancava solo questa: la figlia dei Neri è qui a suonare. Vorrà invitare Nicola a giocare a casa loro, ma stavolta se lo scorda: lo so che fanno apposta per farci fare la figura dei pezzenti col nostro bambino. E sono sicuro che è là che mangia tutte quelle schifezze che lo fanno ingrassare come un… «No, oggi stai qui a giocare.» mi guarda e fa il mestolino, un mestolino dalle guanciotte belle piene, ma io sono irremovibile. Anche lei, Martina, mi guarda con quel faccino, se non fosse così bella, con i suoi capelli biondi e gli occhietti azzurri, verrebbe da dire che finge di essere un barbone che aspetta solo l’elemosina. Un senzatetto che però ha addosso un vestitino firmato della boutique del centro. Costerà un occhio della testa e lei lo usa per giocare: roba da matti!

Perché devono sempre averla vinta? Tanto non lo sposerai mai il mio bambino, non prendiamoci in giro.

«Va bene, ma quando ti chiamo, corri a casa.» lui annuisce, gli sistemo i vestiti e gli do una pettinata con le dita «Guarda che bell’ometto!» poi guardo lei e mi verrebbe da tirarle quelle treccine perfette che finiscono col fiocchetto di raso coordinato con le scarpine di… Prada? «Ecco, vai pure.» sento l’acidità che mi sale dallo stomaco mentre lo guardo correre dai vicini «E non sudare!» ma quello ormai ha già capito che dall’altra parte la vita è più bella e nemmeno m’ascolta, quell’ingrato.

Mi avvicino di nuovo alla recinzione e sbircio dai buchi della rete arancione e vedo l’escavatore che rimuove la terra dalla parte centrale del giardino.

I Neri sono entrambi sul vialetto e si stanno tenendo per mano «Mi fate venire il diabete.» il commento mi sfugge dalle labbra, ma chi se ne frega. Nicola sta per entrare a casa loro, ma lei, miss “Ce l’ho solo io” lo chiama a sé, si china e gli sistema la maglietta e una ciocca che gli è scivolata sulla fronte. E lui le sorride di rimando: se va avanti così, si fregano anche il mio bambino.

Neri mi vede e agita la mano per aria, con un sorrisone allegro: che hai da ridere tanto? Solo perché ti godi la vita pensi di essere migliore di me? Ricambio con un cenno rapido della mano, poi mi giro e torno in casa.

Perché la vita è così ingiusta?

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La tristezza

Polesine – opera di Marco Rosellini

Questo Regalone mi è particolarmente caro poiché è testimone della volontà di ALESSANDRO GIANESINI di esplorare l’insolido sentiero che porta a luoghi muti e urlanti: le emozioni.

Gli sono grata per aver deciso di condividere così tanto.

Il percorso è iniziato con il racconto LA RABBIA, che ho avuto l’onore di ospirare in questo spazio in anteprima; ora è di ritorno a casa.

(ALE, GRAZIE)


Lo schermo è scuro, buio, immoto: nessun led che lampeggia, nessun bip a indicarmi un sussulto di vita; scorro le e-mail, ma quest’oggi nemmeno lo spam sembra interessato a me.

Infilo il telefono in tasca e me ne esco per una passeggiata: la mente si arrovella senza tregua, senza lasciarmi nemmeno il tempo di godermi quell’alito di vento che fa viaggiare veloci le nuvole, che corrono libere almeno quanto i miei pensieri.

Il telefono vibra, trattengo il fiato, ma è solo il meteo che mi avvisa che oggi c’è il sole «Grazie tante, eh!» gli rispondo, ma ne approfitto per scorrere con le dita in cerca di altro: niente. Elimino la notifica, scuotendo il capo e ricominciando a rincorrere le mie preoccupazioni, anche se forse son loro a inseguire me, ovunque vada, ovunque volga lo sguardo.

Com’è che sono finito in questo circolo vizioso? Era una mattinata così piena di allegra ipocrisia, saluti, baci, messaggi e poi… e poi niente, come se fossi sparito dalla faccia della terra.

Ripasso mentalmente tutta la giornata e la mano si infila in tasca: giusto una sbirciatina. Niente.

Non c’è nemmeno un runner da salutare oggi? Han deciso tutti che devo essere solo? Va bene, lo accetto…

Sì, come no! Non riesco a essere sincero nemmeno con me stesso? Ci sto male, ma non posso far altro che aspettare, muovermi, guardare. Lo vorrei gridare al mondo quanto sto male, ma sono talmente giù di corda che non ho avuto nemmeno il coraggio di parlarne con i miei amici.

Una macchina! Sembra che mi stia salutando, ma poi mi accorgo che mi sta solo facendo segno di stare in parte perché sono finito in mezzo alla strada. Cos’è? Il subconscio che ha deciso che è meglio lasciar perdere tutto e finirla qui?

Mi fermo a guardare l’acqua di un fosso che scorre lenta, un paio di pesci che si allontanano seguendo la corrente e la carcassa di una nutria a pelo d’acqua, lì vicino.

Perché sono venuto da questa parte? Perché proprio questa strada? Per non incontrarti in centro o è perché era la strada che facevamo insieme la domenica dopo pranzo?

Tutte e nessuna, chiaro. Ma io sono ancora qui a rivivere quei sorrisi al mio fianco, quelle volte che mi indicavi un airone o quando mi facevi cambiare strada perché c’era un cane che abbaiava a un cancello.

Dove sono quelle giornate di sole mano nella mano? Solo nei miei ricordi, ma non sono caldi come gli abbracci e le coccole che ci scambiavamo.

Faccio dietrofront quando vedo la casa che ci piaceva tanto e su cui facevamo tanti progetti. Quei progetti ora che fine faranno? Non lo so, la casa è bella lo stesso, ma non è più la stessa senza immaginarmici dentro assieme a te.

Ci vuole mezz’ora per tornare alla civiltà e ogni singolo secondo è te che vedo in ogni fiore, in ogni albero, in ogni sagoma che scorgo in lontananza. Un attimo, quella non è la mia immaginazione: sei proprio tu.

Sei da sola, cammini spedita e mi vieni incontro: il cuore perde dei battiti, ma chi se ne importa. Stai sorridendo, non c’è dubbio e sorrido anch’io.

Quando siamo vicini sto per abbozzare un «Ciao» addobbato da un sorriso, ma vedo il cavo dell’auricolare e tu non stai certo parlando con me. La smorfia resta paralizzata sulle mie labbra, mentre da parte tua vedo solo un’occhiata sdegnata, come se l’avessi urtata per sbaglio.

Passo oltre, il sorriso è rimasto stampato sulla mia faccia, ma si spegne sotto il peso di una lacrima scivolata sulle labbra.

Guardo il telefono, quella chiamata non era certo per me…